Native Advertising: quale futuro?

Ormai abbiamo raggiunto un buon numero di interviste su Mediabuzz. Ogni lunedì pubblichiamo le opinioni dei professionisti del web, impegnati in diverse attività: c’è chi si occupa della SEO come Benedetto Motisi, chi del social media marketing come Domenico Armatore e chi del branding come Cinzia di Martino.

native advertising
<a href=”http://unsplash.com/”Fonte immagine

L’obiettivo è sempre lo stesso: introdurre un profilo professionale e comprendere il suo punto di vista rispetto all’integrazione della native advertising nell’universo web marketing.

Su questo blog abbiamo visto che la native advertising non è nata con internet, ma ha una storia che affonda le radici nella comunicazione cartacea, televisiva, radiofonica. Inoltre le ricerche sono fiduciose nella possibilità di far apparire la native advertising come un contenuto non ingannevole.

Perché la vera sfida di questo modello pubblicitario si lega proprio all’autorevolezza del messaggio e di chi lo ospita. Una delle domande che lasciamo nelle interviste lancia una sfida: “il 2014 sarà l’anno del native advertising. Quali saranno le implicazioni riguardo all’autenticità del web, dei giornalisti e dei blogger?”

L’autenticità

Questa è la chiave di tutto. L’autenticità. La native advertising, qui in Italia, ha ancora qualche pregiudizio da affrontare perché si fa ancora molta fatica ad accettare il binomio pubblicità/utilità.

Noi consideriamo la pubblicità come qualcosa di falso, ingannevole, capace solo di dare visibilità a un prodotto o un servizio senza considerare l’utilità dell’utente finale. La pubblicità è lo spot che interrompe il telefilm sul più bello, è il momento da sfruttare per alzarsi dalla poltrona.

La Native Advertising è altro

Esatto. La native advertising ha un universo di fronte a sé nel momento in cui riesce a puntare su utilità e autenticità. Da un lato deve presentarsi come un contenuto utile agli occhi di chi legge, dall’altro deve lasciarsi identificare per quello che è: un contenuto advertising, una pubblicità.

Ma una pubblicità che segue la linea editoriale di blogger e testate giornalistiche. Una pubblicità, soprattutto, che interrompe il circolo vizioso del messaggio non utile da evitare e si contraddistingue come elemento che arricchisce l’esperienza di chi sta leggendo.

L’autorevolezza alla base

Alla base di questo meccanismo c’è l’autorevolezza di chi ospita l’inserzione, il contenuto della native advertising. È un cane che si morde la coda: se hai lavorato bene sei un nome autorevole del web e attiri nuovi inserzionisti, ma al tempo stesso devi selezionare e adattare i contenuti al tuo portale per mantenere alta l’autorevolezza.

Cosa vuol dire essere un blog autorevole? Lo approfondiremo nel prossimo articolo. Per ora voglio rispondere in sintesi alla domanda già rivolta ai miei colleghi: le implicazioni negative sull’autorevolezza dei contenuti web sarà minima (o inesistente) se ci sarà. Il giusto equilibrio tra coerenza dei contenuti proposti e chiarezza dei legami con l’autore.

Secondo te, invece?

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